domenica 6 febbraio 2011

La rete nella città, la città nelle reti


Questo articolo è stato pubblicato sull'ultimo numero di Multiverso, rivista edita da Forum Editrice, dedicato al tema del link. Il mio articolo lo potete leggere qui, ma la rivista merita di essere acquistata non fosse altro che per la bellissima impostazione grafica curata da Susi Grion e Laura Morandini di CDM associati


La rete nella città, la città nelle reti.
Gli ecosistemi urbani sono costituiti dalle relazioni che gli abitanti stabiliscono tra loro e con il contesto. L’ecosistema è, in altre parole, l’interconnessione di individui, luoghi, infrastrutture, strutture e istituzioni. Qualunque sia il livello di coinvolgimento sociale, vale a dire il modo in cui si partecipa alle sorti della comunità, si è sempre parte di una rete di relazioni. Si vive nel mondo reale, in cui i corpi si muovono attraversandolo, i sensi sono sollecitati e gli incontri aprono nuove possibilità di relazione. In questo mondo si ama, si odia, si stringono amicizie e si costruiscono muri. In questi luoghi ci si lega alle sorti del pianeta e ne si è coinvolti, si è parte di un sistema a rete in cui ciascuno è influenzato dalle decisioni altrui. Gli eventi imprevedibili che accadono localmente, che siano decisioni individuali o casualità inaspettate, si ripercuotono anche a notevole distanza, sia geografica che temporale. La rete della vita urbana è dunque un sistema complesso, in cui la relazione di causa ed effetto non si stabilisce in uno spazio e un tempo precisi. Gli eventi precedenti non ci dicono molto su quanto accade, occorre invece individuare le strutture e le politiche di sistema.


Prendiamo allora la città, completa di cittadini e non solo di manufatti: finora è stata soggetta alla pianificazione e considerata come un sistema lineare fatto di funzioni semplici e identificabili – abitare, lavorare, svagarsi –; su questa base è stata pianificata, cioè organizzata nelle funzioni e immaginata nello sviluppo. La sua proiezione nel futuro è sempre stata considerata in crescita, dato che nella società industriale la riduzione, la contrazione o la decrescita sono considerati valori negativi. In questa organizzazione i cittadini entrano quale variabile quantitativa, in grado di svolgere una funzione alla volta, sempre prevedibile e sempre organizzata. Avremo gli operai, gli studenti, la gente che va al cinema, i clienti di centri commerciali, i residenti di una certa strada, poi le categorie generali: gli uomini, le donne, i giovani, gli anziani. Una simile lettura, fredda, fondata ancora su una cultura rigidamente determinista, non si occupa delle condizioni specifiche, ma tende sempre a trovare gli aspetti generali e generalizzabili. Da queste generalizzazioni, nel corso degli anni, è stata sviluppata una tecnica della gestione urbana che ha affrontato, separatamente, un problema alla volta. Specialisti del traffico, dell’energia, del verde, delle zone residenziali si concentrano, di volta in volta, su certi obiettivi di miglioramento, senza occuparsi delle conseguenze. In tal modo, la soluzione di un problema determina anche zone di declino economico e sociale.

Oggi la trasformazione urbana avviene in tempi brevissimi, due-cinque anni, con la conseguenza di dissolvere in un attimo situazioni stratificatesi nei decenni o secoli precedenti. In genere le previsioni di piano sono volte al raggiungimento di determinati obiettivi, regolando le quantità costruibili, e non considerano le catene di conseguenze che ne possono derivare. Ad esempio, l’insediamento contemporaneo di persone nei nuovi quartieri suburbani, o nelle zone centrali ristrutturate, non dà tempo alla strutturazione dell’ecosistema, a quella stratificazione di relazioni che ne costituiscono le capacità resilienti. Le relazioni sociali hanno bisogno di molto tempo per stabilirsi mentre basta un attimo per dissolverle. In questa luce, la città di oggi è più il frutto degli errori e delle semplificazioni sommatesi nei decenni precedenti, che il prodotto di lungimiranti politiche urbanistiche.
Essa si presenta come sommatoria di parti, edifici, complessi di edifici e zone nate dall’applicazione schematica di un’organizzazione funzionale rigida, che le chiude rispetto al contesto circostante. Risultano tecnicamente efficienti nello svolgere la loro funzione per un arco di tempo definito – ad esempio l’orario di apertura dei negozi, per i centri commerciali, o le ore di vita domestica, per le aree residenziali – ma, dato che queste parti nascono con proprie regole interne di funzionamento e crescita, non possono rispondere a domande e aspettative della città nel suo complesso. La tecnica progettuale si concentra sui singoli interventi di ‘sviluppo immobiliare’ (development) e determina, negli spazi confinanti, una condizione indefinita in cui si subiscono solo gli aspetti negativi di impatto, quali il traffico, l’inquinamento, il rumore, la mancanza di sole.

Tutti gli interventi recenti si caratterizzano per l’assenza di relazione con il contesto, l’incapacità di accogliere cittadini imprevisti – cioè fuori dalle categorie previste – e funzioni non contemplate. Questa organizzazione riduce drasticamente la ridondanza funzionale, che è uno dei presupposti vitali degli ecosistemi; elimina, cioè, la compresenza di più figure e più spazi che possano assicurare la stessa funzione. La pianificazione della città esclude la ridondanza, considerandola inutile, non efficiente. Ci si rifiuta di ammettere nella città contemporanea attività non pianificate, per paura che queste portino all’inceppamento del funzionamento stabilito. L’ecosistema città, privato dell’abbondanza, della distribuzione, delle differenze, dell’accessibilità, della cooperazione, non vive più, resiste. Oppone resistenza immettendo rigidità nel sistema, creando una sempre maggiore impermeabilità ai flussi di informazione e ai flussi di persone, privandosi così di ciò che ne costituisce l’elemento vitale. Una città concepita rigidamente imbriglia i tentativi dei singoli di usare gli spazi in modo differente e blocca nuove forme di auto-organizzazione. Progressivamente la capacità di agire come comunità su un proprio spazio è stata delegata agli esperti, ai politici, ai gruppi che detengono il potere economico. Chi costruisce oggi le città, chi ha i capitali e chi ha il potere decisionale è concentrato sull’oggetto, sull’immobile merce, è guidato dal piano economico che calcola il rendimento dell’investimento. Le città sono ricostruite annullando il prima, senza prevedere il dopo, senza avere mai un’ipotesi di relazione contestuale, con azioni puntuali e rapidissime che non prevedono le conseguenze.

Centri commerciali, centri direzionali, centri residenziali, centri sportivi, centri benessere e poi polo scolastico, polo universitario, polo sanitario-ospedaliero, polo museale, polo carcerario: la toponomastica della città contemporanea sembra ossessionata dalla concentrazione in spazi definiti e specializzati di una sola funzione alla volta. Questi centri nascono da una sorta di esplosione, un big bang urbano che dissemina frammenti monofunzionali su un’area sempre più vasta. Da un punto di vista strettamente semantico, il centro ha senso se riesce ad attrarre un intorno nella sua orbita, ma, anche da un punto di vista strettamente urbanistico, il centro dovrebbe essere un punto di attrazione e concentrazione di funzioni diverse, in grado di porsi a scala territoriale come il luogo in cui trovare molte più cose, in cui incontrare la massima varietà di individui.
La visione di chi oggi determina l’assetto delle nostre città è sintetica, opera per tagli, cioè limita, confina, termina. Al contrario, ci sarebbe bisogno di una visione simultanea, comprensiva, in grado di andare oltre ai sintomi e alle cause, oltre alla necessità e allo scopo; bisognerebbe capire la natura di ciò che accade e contemporaneamente agire, tenendo in gioco la complessità dei mille piani in cui funziona la logica non escludente del ‘e questo e quello’. Dalla scienza delle reti ci arriva questa possibilità di ragionare sulle interazioni, su ciò che avviene tra questo e quello, dove ‘questo e quello’ non sono l’inizio e la fine agli estremi di un processo lineare, ma aspetti della circolarità in cui agiscono continui effetti di retroazione. Ragionando in termini di rete, non si raggiungono obiettivi, dato che non si pone un limite temporale in cui finire, piuttosto si liberano i processi che portano all’agire. Ma chi è chiamato all’azione? Le forze del mercato, guidate dal capitalismo finanziario improntato alla speculazione, rivendicano il ruolo di guidare lo sviluppo della città, e di fatto lo esercitano attraverso gli specialisti e i politici, le figure che sono in grado di creare delle regole finalizzate alla realizzazione degli obiettivi di mercato. Ma obiettivi di mercato e vivibilità degli spazi urbani non sono quasi mai coincidenti; qualsiasi intervento che vada solo nella direzione della creazione di un profitto tende a minare la vitalità dell’ecosistema città.
La città oggi richiede una ricostruzione totale, non nel senso dei manufatti, quanto di una re-invenzione sociale che dia ruolo attivo ai cittadini e li spinga a una presa di responsabilità, a sentirsi responsabili in prima persona dello spazio pubblico e dei beni comuni. Per uscire dalla logica del vano abitato, della merce del mercato immobiliare, e affrontare dinamicamente l’uso degli spazi, dal domestico all’urbano, bisogna spostare l’attenzione dalla parte al tutto, dalla conoscenza dell’oggetto alla conoscenza del contesto.

Gli ambienti fisici, sociali, culturali, tecnici, non sono fissi; non servono strutture rigide, la costruzione dello spazio fisico è oggi, forse, quella meno necessaria. Non c’è bisogno di nuovi muri, di volumi; ciò che occorre è la re-invenzione degli usi, occorre riattivare tutte le forze locali, in termini di intelligenza e creatività, per far sì che la città viva. Ad esempio, in campo culturale, non funziona una politica che costruisca musei, spazi tecnici, specializzati, rigidi, e poi si disinteressi del loro funzionamento. Il luogo espositivo ha senso se esistono le condizioni di stimolo e rinnovamento continuo del patrimonio culturale comune. È ora di iniziare a pensare a un modo di costruire leggero, temporaneo, flessibile, non invasivo. È questo il senso della rete: non essere vincolati a un’unica infrastruttura rigida, ma essere proiettati nella connessione totale, che abbraccia tutti i campi e organizza tutte le produzioni locali.

lunedì 1 novembre 2010

La casa temporanea a zero emissioni - Zero Emission Temporary House - ZETH




Abbiamo realizzato un prototipo di casa che bene esemplifica i caratteri dell'architettura leggera. L'idea è quella di una casa componibile, formata da elementi completi, costruiti in fabbrica, da assemblare sul posto e completi di impianti e finiture.


Questo consente un alto grado di flessibilità, adattando la casa al mutare delle esigenze degli abitanti. Una casa di questo tipo si appoggia sul terreno senza la necessità di creare trasformazioni violente che compromettono l'assetto del suolo.





Il prototipo è stato montato, per la prima presentazione pubblica, in occasione di Friuli Doc a Udine, sul piazzale del castello, dando la dimostrazione di come, case di questo tipo, possano inserirsi anche in contesti delicati.

architetturaleggera@gmail.com

mercoledì 31 marzo 2010

Co-housing in Friuli

Anche in Friuli si sta organizzando un gruppo per il co-housing. Per realizzare questo primo intervento, si ipotizzano sei abitazioni, è stato individuato un bel terreno nel comune di Fagagna di circa 7000 mq. Oltre alla realizzazione delle case individuali si intende costruire una sala comune, servizi collettivi, spazi gioco. I vincoli di piano regolatore limitano la superficie coperta al solo 10% dell'area garantendo un ampia superficie a verde.

I promotori del progetto sono alla ricerca di partner per completare il gruppo e dare vita ad una delle prime esperienze di co-housing in Friuli.

Per informazioni scrivere a cohousing@architetturaleggera.it

Che cos'è il co-housing?

Con il termine inglese co-housing si intende un complesso residenziale composto da alloggi unifamiliari, i cui abitanti condividono spazi comuni, e si impegnano a vivere nel rispetto dell’ambiente e a costruire attivamente dei rapporti sociali di vicinato. Non è il condominio e non è la comune hippy ma ricorda piuttosto la comunità che caratterizzava i quartieri urbani o i villaggi. È un'alternativa all'abitazione individuale suburbana che oggi mostra tutti gli effetti negativi, sia a livello sociale che ambientale, sia in termini di inefficienza dei servizi e delle reti che di costi di trasporto, di comunicazione, di assistenza e di sicurezza. Con il cohousing, si sa che si conosceranno i vicini e si potrà contare su una rete solidale basata sullo scambio, la reciprocità e la gratuità.

Il co-housing è costituito da un gruppo di persone che decide di realizzare direttamente la propria abitazione, condividendo con gli altri i costi generali, opere di urbanizzazione, spese di progettazione, verde e spazi comuni, mantenendo il controllo diretto sulla costruzione. In altre parole l'abitante del co-housing è responsabile e attivo nella gestione del complesso. La forma più economica è certo quella dell'autocostruzione che richiede però competenze e abilità, ma anche la costruzione affidata a imprese sotto il controllo diretto dei futuri abitanti consente notevoli economie rispetto all'acquisto della casa finita. È importante considerare che l'impegno nella costruzione della propria casa non è monetizzabile, nel senso che le ore dedicate non sono ore di lavoro perse ma sono ore conquistate, ore liberate.

Rispetto a comprare una casa “chiavi in mano” la co-costruzione richiede impegno ed è tanto più economica quante più ore si dedicano alla realizzazione del progetto. I vantaggi sono di costruire una casa da abitare in base alle proprie esigenze, di sapere esattamente come la propria casa è stata costruita, di costruire insieme alla casa una coesione sociale non semplice e non scontata in epoca di individualismo spinto.

Anche il ruolo dell'architettura cambia, all'architetto stilista pret-a-porter che considera la casa come un oggetto da vestire per la vendita, si passa ad una architettura flessibile frutto del rapporto tra co-abitanti e progettista. Costruire in gruppo consente poi di adottare in modo efficiente molte più tecniche sostenibili quali la cogenerazione di calore ed energia elettrica, il ricorso a combustibili rinnovabili, il trattamento delle acque di scolo e il recupero dell'acqua piovana, la realizzazione di impianti fotovoltaici di grandi dimensioni molto più remunerativi di tanti singoli impianti domestici.

sabato 19 dicembre 2009

Per ogni costruttore ci vuole un demolitore

In questo tempo sospeso, tra un boom edilizio che si è esaurito lasciando non poche questioni da affrontare e le speranze per un nuovo boom sostenuto dalle norme dei piani casa regionali, è forse possibile porre all'attenzione le questioni realmente urgenti per garantire la sopravvivenza nelle nostre città.
Nella città si intrecciano due grandi sistemi quello tecnologico delle infrastrutture, degli oggetti, dei servizi e quello biologico che raccoglie tutte le forme di vita, dai virus agli esseri umani passando per i parassiti e gli animali da compagnia, le piante infestanti e il verde organizzato. Pensare di isolare da questo intreccio singoli problemi da risolvere separatamente dal sistema è inutile e spesso dannoso.
Facciamo un esempio concreto: i rifiuti. Intanto si deve sottolineare una beffa linguistica nell'abbinamento della parola ecologia alla parola rifiuti in quanto negli ecosistemi non esistono rifiuti, dato che gli scarti di una specie diventano cibo per altre specie. I funghi che demoliscono la biomassa mettendo a disposizione nuovamente gli elementi base, sono veri operatori ecologici, non certo i servizi di raccolta e stoccaggio per l'eternità dell'immondizia urbana. Il tema rifiuti ci serve per capire come questioni complesse affrontate dal fondo non hanno soluzione, una società che si fonda sulla produzione e sui consumi produrrà sempre enormi quantità di rifiuti.
Senza una riduzione dei rifiuti in modo progressivo, ma fino allo zero, non ci sarà soluzione. Questo può avvenire solo organizzando il riuso, eliminando l'usa e getta dunque, e con un'economia del riciclo, in modo che fino all'ultimo pezzo, l'ultima vite o l'ultimo microchip vengano demoliti rimettendo in circolo gli elementi primari. In questa logica non c'è bisogno di discariche o inceneritori ma di inventare dei “funghi tecnologici” dediti allo smontaggio e recupero.
Il modello consumistico dell'usa e getta si è generalizzato invadendo e condizionando la città, la casa è diventata un oggetto da vendere, al pari dell'automobile, e non è più progettata quale luogo in cui abitare. Dal momento che la casa è un oggetto “immobile” la continua offerta sul mercato di nuove case porta ad un consumo sfrenato di terreni, sottratti all'agricoltura e al sistema biologico in generale, e alla produzione di rifiuti immobili che resteranno lungamente a memoria di un'epoca insensata.
Le nostre città, almeno nel nordest, hanno da moltissimo tempo una popolazione stabile, sostenuta dall'immigrazione, altrimenti avremmo la popolazione in calo. Il buon senso dice no aumento di popolazione? No nuove case! E' importante riportare l'economia, la finanza, l'industria edilizia a questo principio di realtà. Dalla crisi non si esce aumentando le quantità di case, capannoni, strade, rotonde, ma lavorando sulle qualità, sono ben contento se sarà più facile ristrutturare, mi preoccupa se questo porterà con sé la crescita incontrollata di metastasi architettoniche che spunteranno qui e là, elementi di vuota bruttezza, nel senso che saranno destinati a restare vuoti e a peggiorare l'estetica urbana.
Oggi, pensando a nuovi piani regolatori, è necessario ribadire l'importanza del blocco totale, assoluto, di qualsiasi costruzione su terreno vergine, agricolo o selvatico che sia. Anzi dirò di più, credo che un buon piano regolatore oggi debba prevedere la demolizione scientifica, mirata, qualitativa. Non sarebbe male che ogni nuovo metrocubo costruito sia accompagnato da un metro cubo demolito e restituito al sistema biologico, per ogni costruttore ci vuole un demolitore come avviene in natura. Viva i funghi dunque, quelli biologici da mangiare e quelli tecnologici ancora da inventare.

mercoledì 13 maggio 2009

Laboratorio Sperimentale di Sostenibilità Edilizia



Con il Convegno
Ecologia della Casa. Zero emissioni e architettura open source.
si è conclusa la prima parte del Laboratorio Sperimentale di Sostenibilità Edilizia dedicato alla progettazione e costruzione di una casa temporanea a zero emissioni costruita interamente in legno.
Il Laboratorio vede coinvolte quattro scuole del Friuli Venezia Giulia e intende diffondere i temi della sostenibilità in architettura attraverso un'esperienza pratica di costruzione.
Alla pagina
http://www.architetturaleggera.it/lasse/lasse-200809-presentazione-dei-lavori/
è possibile scaricare gli interventi e la presentazione del lavoro degli studenti.

giovedì 30 aprile 2009

Architettura open-source

Il termine open-source nasce come metodo di sviluppo del software aperto al contributo di chiunque sia in grado di portare modifiche di miglioramento. Si basa sulla trasparenza dei processi e il potere della rete (internet). L’aspettativa è quella di avere una migliore qualità, più flessibilità, costi minori e la fine delle strategie di marketing di venditori senza scrupoli. Questo non significa fornire gratuitamente esperienza e conoscenza, significa invece mettere le intelligenze in rete secondo la logica che il miglioramento delle condizioni individuali contribuiscono al miglioramento delle condizioni ambientali. In questo senso la filosofia open-source deve diventare patrimonio di architetti e amministratori delle città.

Parlando di architettura opensource si delinea un’alternativa praticabile, una casa che nasce dalla partecipazione al progetto da parte degli abitanti e che prevede un alto grado di flessibilità e adattabilità. Per l’architettura questa non è una novità, il progetto aperto, la stratificazione, la trasformabilità caratterizzano l’edilizia residenziale storica delle nostre città. Mai come in quest'epoca si coglie una distanza tra le esigenze reali dei cittadini e la proposta del mercato immobiliare, il grande architetto tedesco Frei Otto, autore tra le altre cose dello Stadio Olimpico di Monaco per le Olimpiadi del 1972 e precursore di una impostazione ecologica del progetto d'architettura pone con forza la domanda: “Perchè gli architetti continuano a disegnare in nome della collettività progetti e spazi uguali per tutti anche se nessuno li vorrebbe così?” - Con l'impostazione open-source si passa dall’architettura chiusa, che celebra l'autore ma non l'abitabilità di una casa, alla libertà di un’architettura dinamica, aperta alle esigenze degli abitanti, in grado di trasformarsi nel tempo, un’architettura partecipativa in continuo miglioramento.

mercoledì 29 aprile 2009

Ecologia della casa e architettura open-source



Ecologia della casa - zero emissioni e architettura open-source. Efficienza energetica e flessibilità costruttiva. Con questo titolo Venerdì 8 maggio 2009 a Udine alle 9:30 presso la sala congressi della Fiera di Udine si terrà un convegno in cui saranno presentati i lavori del secondo Labboratorio Sperimentale di Sostenibilità Edilizia svolto in collaborazione con ITI Malignani di Udine, ISIS Solari di Tolmezzo, IPSIA Mattioni di San Giovanni al Natisone, ISIS D'Aronco di Gemona del Friuli.

Partecipano al convegno

Manuela Daniel, assistente alle politiche sociali di Coop Consumatori Nordest
Christine Kanstinger dell'Atelier Frei Otto und Partner
Andrea Trincardi Coordinatore del Laboratorio Sperimentale di Sostenibilità Edilizia
Andrea Poggio vice direttore generale di Legambiente

L'ecologia di una casa non riguarda tanto la “naturalità” dei suoi componenti quanto il ruolo che essa assume nella configurazione urbana e l'insieme di relazioni che l'attraversano, in altre parole le componenti tossiche sono solo una parte di queste relazioni da considerare insieme all'energia necessaria a produrre la casa e a mantenerla, la provenienza geografica dei materiali e l'impatto ambientale che si determina in ogni fase della filiera.
Una casa a zero emissioni non intossica i propri abitanti con emissioni nocive (Composti Organici Volatili) e non contribuisce all'aumento dei gas serra perchè richiede pochissima energia per essere scaldata e raffreddata ed è stata costruita con materiali che non hanno richiesto molta energia per essere prodotti. Con casa ecologica a zero emissioni, in una visione ampia, ecosistemica, si indica un modo di intervenire, di trasformare l'ambiente, considerando il punto di vista delle comunità locali per trovare nel contesto e nelle relazioni che lo attraversano le priorità da seguire. Attualmente la deriva consumistica ha profondamente alterato i rapporti degli abitanti con la casa e con il proprio ambiente, la casa è stata ridotta a merce, un oggetto in vendita fra altri oggetti. Scriveva Adorno che “Delle merci culturali si consuma il loro astratto essere per altro, senza che esse siano realmente per gli altri; nel mentre contentano gli altri esse in realtà li ingannano. Oggi la città contemporanea si fonda su questo colossale inganno, inganno che dopo l'emergere della bolla speculativa e le vicende delle speculazioni sui mutui appare più chiaro.